Nelle estati degli anni ‘80 don Titta era il monarca delle angurie a Donnalucata. Sedeva in trono a un crocicchio su un minuscolo sgabellino da spiaggia, reso praticamente invisibile dalla tracimazione delle sue strabilianti natiche. Da lì sovrintendeva al suo forziere: un camion scassato ricolmo all’inverosimile di una ziqqurat di cocomeri dalla cui sommità veniva desiderio di tuffarsi a capofitto, con l’ingordigia di un Paperon de’ Paperoni.
Don Titta era protetto da Ermes (almeno quando si occupava anche di traffici e commerci e non solo del whatsapp olimpico) e manteneva un’usanza già a quei tempi residuale, certificata da caratteri neri a stampatello scritti su un cartoncino da imballaggio: “A PROVA”.
Si trattava di un cerimonioso rito che si svolgeva pubblicamente e permetteva di comprare l’anguria con la certezza che fosse dolce e matura. Croccante.
Funzionava così: don Titta con perizia da samurai (o da killer di masseria) incideva con un coltellaccio a punta un quadrato sulla buccia dell’anguria ed eseguiva rapidamente un vero e proprio saggio da geologo all’interno del cocomero, estraendone una piccola piramide rossa. Già dal profumo e dalla faccia soddisfatta del mulunaru si poteva capire che anche per quella volta don Titta era stato infallibile. Poi venditore e compratore enfaticamente si comunicavano con quel tocco di polpa e, 99 volte su 100, entrambi soddisfatti concludevano l’acquisto.
Oggi l’usanza si è perduta perché le angurie si comprano all’iper e sono tutte ugualmente buone alla vista e scipite al gusto (o forse hanno lo stesso gusto di sempre ed erano solo i miei 10 anni e il teatro di don Titta ad essere saporiti).
È rimasto però nella lingua siciliana un detto adoperato con una doppia, ambivalente intenzione (non state troppo a sbatterci la testa, siamo siciliani).
Quando ci vuole, è un calcettino alle terga per incoraggiare un’impresa resa scivolosa da qualche variabile non del tutto sgamabile, da affrontare però con ardimentosa leggerezza.
“A pprova! Comu i muluna!”
Al diavolo, quindi, l’atavica diffidenza verso qualcosa di inconosciuto e di estraneo. Male che vada sarà stata un’esperienza.
Ma scatta anche a serramanico come ammonimento e sarcastico rimprovero per tutti coloro che procedono a tentativi anche quando si tratta di affrontare prove serie, anzi serissime. Dove 99 volte su 100 si finisce col portare a casa più bastonate di Giufà.
“A pprova: comu i muluna…”
Le parole, le stesse. Stavolta però vengono pronunciate con le braccia allargate, le palme al cielo, lo sguardo sconsolato.
I meloni…
Quei frutti grossi come certi guai che gli appassionati di apologhi possono anche scrivere con la maiuscola.