È arrivato fin sotto la porta di casa con il muso lungo del gattino incazzato per la pioggia sotto cui, non ricorda da chi, è stato lasciato. Praticamente certo di morire bagnato prima di aver mai potuto rovinare un divano, eppure speranzoso che una ciotola di latte caldo poteva sempre materializzarsi accanto a una stufa.
Ha avuto fortuna o ha saputo cercarsela. Per i primi giorni ha vissuto in uno stanzino all’ultimo piano, dentro una scatola di cartone con scritto Lumberjack, foderata di quotidiani e vecchi maglioni di lana, in un grumo di corpi felini con altri 3 trovatelli. Sempre l’ultimo a trovare la strada per il latte riformulato, con i fratelli che gli saltavano addosso per riuscire nella scalata della scatola. Il più delle volte mia figlia lo faceva dormire nel marsupio di un suo strano pigiama da canguro, prelevandolo dal gradino più alto dello stanzino da cui si affacciava con miagolii strappacuore di bimba.
Due anni dopo mi accorgo che, quando crede di non essere visto, sale le scale che portano allo stanzino dell’ultimo piano. Fa finta di saper parlare la lingua degli umani, in un lamento di versi modulati. Fiuta lungo il bordo delle piastrelle un aerosol di giorni passati, se li scrolla di dosso con una scossa di muscoli. Si ferma a fissare il punto di un’antica disfida con uno dei fratelli. Perlustra a muso basso i dintorni di un contenitore di plastica con gli addobbi di Natale. Ripete un gioco di zampe e unghie sulla stoffa di un vecchio pouf, poi gli volta annoiato le spalle creando con la schiena un arco di vertebre e pelo. Insegue una lucertola che non esiste, la inchioda in un angolo, la risparmia per tendere un agguato a fantasmi più corposi. O forse li evoca. Fissa per interi minuti un angolo di doccia. Corteggia uno di quegli universi, a noi inaccessibili, che ci pullulano attorno. Nel ronzio della pompa di calore gli occhi sono due biglie.
Nessuno sfugge alla propria infanzia.