Siamo soliti attribuire a circostanze esterne gli stati di grazia. Che invece dipendono interamente dalla nostra vita interiore.
Guardando il lago da una finestra di Montagnola, ammainando un pomeriggio, Hermann Hesse annotò: “spesso è accaduto che il mondo venisse accusato di essere cattivo per il semplice fatto che colui che lo condanna ha dormito male o ha fatto indigestione; ed è spesso accaduto che il mondo sia stato proclamato benedetto perché colui che lo lodava aveva baciato un momento prima una ragazza.”
Questo, insomma.
L’armonia, l’ispirazione, la fiducia nel Mondo sono spesso legate a un’età ignara, capace di accendere passioni che ci accompagneranno per un tratto di vita. Come farebbe una cometa che lentamente sbiadisce in bava, in uno strappo di fosforo, in cottonfioc.
Passeranno numeri tetri, dosi, pass più o meno green, più o meno nerboruti. Quando ricominceremo con un nuovo entusiasmo per le cose dell’esistenza, questo presenterà sfumature variabili in quantità, ma infallibilmente stemperate in intensità e forza. Varianti, come dicono succeda per i virus di cui siamo ormai tutti intenditori.
Ieri, con accanto mio figlio, scrivevo una e-mail di lavoro scacciando dalle orecchie il sottofondo di una partita di calcio che per me è ormai una delle tante. Ho perso l’intesa con il gioco e con il me stesso che si deliziava di speranze, storie, dribbling e clamori al Cibali. Mi immalinconiva non la perdita di quella verginità, ma i contropiede deturpati in ripartenze, il comico taglio di capelli dell’ultimo prodotto dei laboratori medico sportivi, i tatuaggi di tutti e 22 i giocatori, la divisa fucsia dell’arbitro. E poi la VAR, il burotecnico permesso alla gioia: lo sbriciolamento dell’unita ebbrezza…
Un disagio che acconciavo e riconducevo a un sentimento appropriato: “Di questo calcio d’oggi cosa vuoi raccontare? E a chi?”
Insomma: la colpa non è mia, ma del pallone che è rotolato via, così lontano da divenire irriconoscibile.
Eppure mio figlio, che si sceglie una squadra per cui tifare anche in una partita di Lega Pro, partecipava alle azioni. Si entusiasmava per lo schema su punizione, conosceva le cabale di un numero di maglia e le tribolazioni articolari dello stopper (pardon, centrale), si commuoveva per l’infanzia scalza e colombiana di quell’altro campione. Lorenzo, ma che sono i braccetti e i quinti? Robe della difesa?
Ma è una domanda che nasconde l’augurio di una curiosità e un amore per la vita che lo preservi, tra 30 anni, dalla struggente nostalgia per i tempi eleganti degli arbitri in carne e ossa, della Coppa d’Africa che non si giocava ogni 6 mesi, dei portieri che la potevano prendere con le mani e dell’esistenza del fuorigioco (“Ricordi? Lo hanno tolto proprio quando le femmine cominciavano a capirlo”). Degli anni in cui Scamacca e Giacomino Raspadori segnavano gol a grappoli in porte che non erano larghe 12 e alte 3. Centravanti veri, non come questi fighetti strapagati con Giga Cloud di bitcoin, nella stagione di Amazon League 2051/2052.