Una storia vera

Il professore è un bambino di 80 anni.

Mostra e difende questo suo tempo ritrovato, fatto di libertà. Attimi. Tanti. Candidi. Perfetti. Come cristalli nello zucchero filato.

Non torna nemmeno più a casa, anche se è notte. Ed è felice, nel giardino. Fa sogni belli, nel letto allestito in fretta nel casale. Sì, ci aveva pensato, ma non era il caso: va bene la memoria, ma meglio il permaflex che le foglie crepitanti di granturco nel materasso.

Scrive da giorni lettere che devono attraversare distanze lunghe quasi quanto la sua vita. Ma ha tutto il tempo, ormai. Usa caratteri tondi e disciplinati e tutte le raccomandazioni che ha insegnato per 40 anni ai liceali. Come si inizia un tema, lo svolgimento, l’argomento. Poi se ne dimentica e lascia che a parlare sia il bambino. 

“Ti ho tenuto compagnia, da dentro, per nove mesi. Poi tu mi hai fatto compagnia da fuori per altri nove. Dopo te ne sei dovuta andare. Lo so, non volevi. Ho avuto freddo per strada e i piedi coi geloni. Ho avuto fame e paura durante i temporali e nemmeno un attimo di madre. E i parenti diventavano distanti e i creditori riottosi. Il fuoco nel camino languiva, ma io (sembra la cosa più incredibile) crescevo. È intelligente, dicevano. E i vicini mi chiamavano u’ prufissuri.

Papà… Me lo racconti un giorno o l’altro, da qualche parte che adesso sai solo tu, assieme a chi lo hai fabbricato ‘stu prufissuri?

Facevo fatica a crederci, sai, alla cosa del prufissuri?

Come facevo? Qualcuno deve pur chiedertelo ‘cosa vuoi fare da grande’. Come fai a saperlo, sennò?

Zio Vanni lo ha deciso e basta. Prufissuri. Amore di zio? Forse. Ma era già stata inventata dalle nostre parti quella parola? Di sicuro “è ora pure per noi di tenere un uomo importante e rispettato in famiglia”. Deciso.

E i denari?

I denari… Questo giardino in cui tu non saresti più tornata valeva mille panini alla stazione, cento libri, dieci tasse, cinque vestiti, due paia di scarpe nuove e una laurea…  Disfarsene fu uno scarabocchio su un foglio di carta. Tanto dalla terra dovevo pur andar via, no?

Oggi un nipote che tu non hai mai conosciuto, il più grande dei miei figli, l’ha ricomprata e me ne ha fatto dono. Vai a capire… Il più grande e il più stronzo. Mi disse che si era fatto ingegnere due settimane dopo che si era laureato. È fatto così. Le chiacchiere gli servono solo per il business, non per esibire affetti. E poi un anno fa mi mette in macchina senza dire niente, mi porta qua e mi dà le chiavi del nostro giardino…

Adesso sto facendo crescere le stesse rose che hai nella foto bella. Credo. È in bianco e nero e da quando sono tornato qui, in pensione, si suda. In tasca si sta sbiadendo…” 

Sì, il varco è qui. Ora che lo ha trovato il professore scrive. Lo stargate è da qualche parte, dove la terra si fa più bruna. O più fragile. Solo il professore lo sa. Forse tra  le zucchine, quelle lunghe, verdoline, che gli piace veder crescere appese al pergolato di pertiche di castagno. O in mezzo ai pomodori cuori di bue che fa arrampicare in alto, offrendo loro una canna dopo l’altra mano a mano che oltraggiano, con rossa arroganza e verdi tentacoli, la gravità.

E mentre scrive sente avvicinarsi piano, da una tana di fuochi fatui, una presenza carezzevole, un fantasma che si ricorda di quando aveva un cuore che batteva.

È qui che questo bambino dalle rughe soddisfatte si vuole fermare, dentro ognuno di questi giorni ritrovati. Con moglie e figli e nipoti si è trattenuto già abbastanza.

Ora è con sua mamma che vuole stare per un po’.