Fra’ Clementone da Ravensburger e i VdK

La prima parola di questo racconto la scrive nell’ombra di dieci secoli fa un monaco basiliano. Sta affrescando sulla navata destra dell’Abbazia di Santa Maria a Cerrate un drappello di santi bizantini. Il cielo alle loro spalle è azzurro come nella sera del Settimo giorno. Il monaco non conosce nulla di noi creature del XXI secolo, ma sa che non lontana è la costa da cui mordono e fuggono i micidiali pirati saraceni. Che se la vedano con questa sacra squadriglia di corpi senza peso e spade in pugno, pronte non a colpire, ma a convertire i cuori di qualsiasi infedele. 

Per cinquecento anni l’affresco fa il suo mestiere. Finché in un giorno imprecisato, per un evento che non conosciamo, il lavoro del misterioso monaco rovina a terra, sparso in decine di pesanti blocchi tra le mani di una squadra di operai. Quale migliore occasione per rinnovare la navata con un nuovo ciclo di santi? Magari vagheggiando i Normanni, gli inossidabili influencer della terra di Puglia. Le pietre dirute dell’anno mille vengono riposizionate a caso e su di esse si appoggia una nuova armata di cavalieri glabri, atletici, con la carnagione chiara riflessa da vaporosi boccoli alla Shirley Temple d’Altavilla. San Giorgio a cavallo uccide il drago come in una figura di dressage. 

Ma sempre non lontana è la costa. I turchi nel 1711 saccheggiano l’abbazia. Più turco di loro è Michele che si immortala nel 1726 graffiando la sua firma sui nuovi affreschi, seguito da una legione di cretini di ogni tempo. I monaci se ne vanno, Dio forse no. 

L’abbazia, lo scriptorium, il chiostro diventano una masseria. Non è pur sempre santo l’olio e degno il lavoro per produrlo? Sulla pietra bianca di Lecce crescono scarabocchi di muffe e muschi. Dei santi affrescati, murati vivi, si perde la memoria.

 

 

Solo negli ultimi anni di questo secolo i restauri e un affidamento al FAI restituiscono il luogo a Dio e agli uomini. Adesso sembra che Arlecchino abbia steso il suo abito ad asciugare sulla navata destra dell’Abbazia. Tocca al visitatore di una tiepida domenica di novembre 2021 lambiccarsi con un rebus di losanghe dai colori piatti, frammenti di aureole, caratteri greci, brandelli di piedi in calzamaglia, barbe, mantelli. Si aziona il solito frullo di neuroni che costringono il cervello all’interpretazione, precisando significati inesistenti. Sembra il lavoro delle mani di un mosaicista grande quanto una montagna. Ricorda una griglia di Mondrian. Evoca le mani di mio padre, con le mie, che lavorano a un puzzle da duemila pezzi. Definisce in anticipo la mania tutta moderna della scomposizione (i quadri di Picasso, il teatro di Pirandello, il quanto di Planck, le cucine, persino il cannolo).

Cinque secoli prima di questo momento, inconsapevoli operai senza alcuna specializzazione avviarono un meccanismo capace di generare una vertigine postmoderna, agirono assecondando un gusto per loro inconcepibile che commuove il loro discendente con l’automobile elettrica, lo smartphone, la giacca in pile.  

E noi che disponiamo con cura parole bidimensionali, nere formichine di pixel su un fondo azzurrognolo, parole con le armi spuntate, parole palloncino che ci sfuggono di mano affidate a una nuvola di elettroni, noi monaci, noi operai, noi impiegati della scrittura senza gloria, per quale ragione imbrattiamo fogli elettronici? Esisterà un uomo del duemilacinquecento che dentro un server in rovina sarà capace di incuriosirsi e recuperare per le nostre parole significati che oltrepassino le nostre intenzioni? Qualcuno che ci consentirà ancora in qualche modo di andare e venire, di parlare ed essere ascoltati, di intenerire e fantasticare, insomma di assumere, una volta lanciati lontanissimi nel tempo, una forma del presente?